

La Città di Carini, geograficamente adagiata su una collina a 162 metri sul livello del mare, offre al visitatore uno spettacolo unico nel suo genere, estendendosi territorialmente dalla montagna al mare.
Questa sorta di culla ove è adagiata, regala, agli occhi di chi la osserva, un panorama stupendo, potendo fare ammirare, in un colpo solo, le sinuose curve della Montagna Longa fino alle azzurre acque del Mar Tirreno. Il territorio presenta caratteri naturalistici di pregio con specie botaniche, zoologiche e micologiche varie. Nonostante la forte antropizzazione, il territorio di Carini, per la sua posizione è dimora e transito di diverse specie faunistiche, molto rare e protette: fra queste nidifica l ' Aquila del Bonelli, l' Aquila reale e l'Aquila Minore, e il Gracchio Corallino (Pyrrhocorax). Per gli ornitologi citiamo la presenza di alcune specie: Poiana, Corvo Imperiale, Ghiandaia di bosco, Passero solitario, Pettirosso, Upupa, Cornacchia grigia, Allocco, Barbagianni, Fringuello , e Cinciallegra. Tra i mammiferi prolificano Volpe, Gatto Selvatico,Martora, Donnola , Istrice e Riccio.
IL BOSCO DI SANTA VENERA
​L’area attrezzata è ubicata in una zona pianeggiante nelle prossimità di un rifugio forestale. Tavoli in legno, punti cottura, fontanelle con acqua ed un casolare adibito ai servizi igienici sono il corredo di quest’area attrezzata. Le aree circostanti sono affidate a pascolo, dunque nel bosco si possono incontrare diverse mandrie di mucche, che, sono la nota scenografica del bosco di Montagna Longa.
Servizi: tavoli, servizi igienici, acqua non potabile.
Come raggiungere l’area: Da Montelepre seguire la strada provinciale n. 40 per Carini. A circa 4 Km. dal bivio le chiome dei pini domestici ci indicano che siamo nel complesso boscato di Montagna Longa. A destra si noterà una cava in esercizio e tutt’intorno tanti, tantissimi alberi. Prima di arrivare all’ingresso principale della cava a sinistra si dovrà imboccare la strada sterrata al cui inizio c’è una freccia indicatrice riportante l’indicazione Bosco Santa Venera. Si dovrà seguire questa strada bianca, superare il cancello delimitante il confine del territorio demaniale, e continuare sulla direttrice principale. Dopo circa 3 Km di distanza dal cancello forestale si arriva all’area attrezzata.
ACROPOLI DI MONTE D'ORO
In epoca arabo-normanna la scoscesa ed impervia zona sottostante al Monte d’Oro (ricca allora di alberi e di acqua) aveva già una propria connotazione territoriale, costituendo il feudo “Munkilèbbi” (toponimo di origine araba che, secondo recenti studi, equivarrebbe a “Monte dei cani”, che la graduale evoluzione lessicale ha poi trasformato in “Montelepre”). Una pergamena del 1311 riporta il testamento con il quale Palma (moglie di Ruggero Mastrangelo, uno dei personaggi chiave del Vespro Siciliano) donò il casale Munkilebbi (“con fondaco”) al Monastero di Santa Caterina del Cassaro di Palermo….. A causa delle difficoltà economiche, nel 1429 le monache concessero il feudo di Munkilebbi in enfiteusi all’Arcidiocesi di Monreale. Nel 1433 l’Arcivescovo Giovanni Ventimiglia (della potente famiglia dei Marchesi di Geraci), chiese ed ottenne dal Re Alfonso V d’Aragona la licenza per edificare nel feudo un fortilizio. La costruzione della torre (o ‘castello’, come viene comunemente chiamata) più che ad esigenze di natura difensivo-militare sembra ricondursi alla volontà autocelebrativa del committente: la dimora fortificata doveva rappresentare il simbolo della preminenza della Diocesi di Monreale e del potere politico-economico dei Ventimiglia. Per tipologia la Torre di Montelepre rappresenta uno degli esempi architettonici più interessanti della Sicilia Occidentale. I lavori iniziarono verosimilmente prima della concessione della licenza (se è vero che già nel 1434 lo stesso Re vi alloggiò in occasione di una battuta di caccia) e durarono circa due anni, secondo alcuni utilizzando anche materiale costruttivo proveniente dalle rovine di Monte d’Oro. L’imponente struttura è a tre elevazioni, è alta poco più di 23 metri e presenta una merlatura risalente al primo ventennio del ‘500….. Una scala esterna porta direttamente al piano nobile…… Sopra la porta d’ingresso (in corrispondenza del ponte levatoio, oggi non più esistente) è collocata una caditoia….. Il pianoterra (destinato ai servizi, ai magazzini e all’alloggiamento dei coloni) si sviluppa su due livelli ed ha quattro vani coperti da volte a botte….. Ad uso della signoria erano i piani superiori.…. Gli ambienti, ampi e luminosi, presentano eleganti volte a crociera con costoloni….. Al secondo piano v’erano la camera da letto, lo spogliatoio ed un oratorio (del quale rimane un raffinato portale con arco a sesto acuto, oltre il quale v’era forse una piccola abside)….. Grazie alla posizione strategica della torre (posta sulla sommità di una collina), dalla sua terrazza si dominavano le vallate circostanti e si controllavano sia l’antica strada regia che collegava Palermo e Trapani attraverso il passo di Sant’Anna (che univa la vallata di San Martino delle Scale con il Piano di San Nicola), sia l’importante asse viario Palermo-Monreale-Partinico (che attraversava la portella di Sàgana). Più volte modificata all’interno e all’esterno, la torre è il simbolo della storia del feudo di Munchilebbi e di Montelepre, che a partire dal 1449 (anno della morte dell’Arcivescovo Giovanni Ventimiglia) e fino al 1812 (anno in cui fu abolita la feudalità) fu appannaggio di nobili più o meno illuminati: Pietro Formica, Alvaro Vernagallo, i coniugi Carlo Abbate e Laura Vernagallo ed il barone d’origini spagnole Pietro Opezzìnga nel ‘500; Tommaso, Pietro e Raffaele Bellacera dei Marchesi di Regalmìci nel ‘600; infine, nel ‘700, i La Grua (Principi di Carini), il cui stemma (una volta nelle sale della torre) è oggi posto sulla facciata di un edificio del centro storico.
NECROPOLI DI "MANICO DI QUARARA"
La NECROPOLI DI MANICO DI QUARARA (dal nome evocativo) scoperta in contrada Santa Venere ed al suo insediamento collegata….. Due campagne di scavo condotte nel 1968 e nel 1989 dalla Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali hanno portato alla luce numerose tombe ipogeiche collettive ad inumazione, molte delle quali precedute da un corto corridoio (“dròmos”)….. Le tombe, scavate nella tenera calcarenite ed usate per un ampio arco cronologico, erano chiuse da blocchi di arenaria (disposti ad architrave) o da muri a secco….. La ricchissima suppellettile restituita dalla necropoli dimostra la vitalità del sito e la dinamicità dei suoi rapporti commerciali con le realtà coloniali e con il mondo indigeno coevo. Molti di questi reperti (prima custoditi nel Museo Archeologico Regionale di Palermo) oggi sono esposti nel nuovo MUSEO CIVICO di Montelepre….. Si tratta soprattutto di materiale attico d’importazione, databile tra la seconda metà del VI e il V secolo (come questo cratere)….. e di una notevole varietà di vasellame indigeno con decorazione geometrica dipinta: a questa tipologia appartiene un bel cratere a colonnette, risalente al VI secolo a.C…… Tra gli altri pezzi indigeni, particolarmente importanti sono le oinochòai a bocca trilobata….., le hydriai (pron. idriài) con decorazioni geometriche…. ed un orlo di pythos con figure mitologiche a rilievo….. Numerosi pesi da telaio confermano la fiorente attività di tessitura della lana che si svolgeva nella città di Montedoro, ad economia agro-pastorale (uno è con sigillo)….. Alla trasformazione dei cereali è riconducibile una macina in pietra lavica….. Tra il materiale ritrovato vi sono anche oggetti di uso comune (come grattugie e cucchiai) ed ornamenti decorativi (tra cui fibule e perle in pasta di vetro)….. Numerose sono le lucerne (costituite da un solo becco dal quale usciva il lucignolo immerso nell’olio)….. Punte di lance ed asce completano la vasta gamma dei reperti….. La necropoli di Manico di Quarara rimase in uso fino ad epoca ellenistica, età in cui il centro su Monte d’Oro fu, forse, abbandonato dopo una rovinosa distruzione in concomitanza con gli event. bellici della prima guerra punica .
MONTAGNA LONGA
Montagna Longa è un monte vicino Carini, in provincia di Palermo e separa i comuni di Cinisi e Carini. La sua altezza è di 975 metri s.l.m. ed appartiene al gruppo di montagne dei Monti di Palermo. La montagna è situata tra il territorio di Carini, Cinisi e Terrasini, nei pressi dell'Aeroporto di Punta Raisi ed è fornita di un'area attrezzata demaniale.
In cima è presente una croce, in ricordo delle 115 vittime del disastro aereo del Volo Alitalia 112 avvenuto il 5 maggio 1972.
Grazie alla sua altezza e posizione, è usata dal Corpo forestale della Regione siciliana, per l'avvistamento di incendi e dalle emittenti radiotelevisive per l'installazione dei propri ripetitori. Il sentiero che conduce alla cima parte dal bosco di Santa Venera e si snoda per quasi 6 km. La croce che sovrasta la montagna è stata posta nel primo anniversario del disastro aereo del 1972. Quasi sulla cima l'archeologo palermitano Mannino ha rinvenuto rovine di posti di vedetta di probabile origine cartaginese.
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E' il 1972. Un anno difficile da dimenticare. Un aeromobile DC 8 dell'Alitalia, il volo AZ 112 Roma – Palermo si schianta sul costone della Montagnalonga, fra Cinisi e Carini, a circa 5 miglia nautiche a Sud dell'aeroporto di Punta Raisi. Muoiono 115 persone lasciando 98 orfani e 50 vedove. Tra le vittime i corpi di un giudice, di due giornalisti, di un paio di militari e di qualcuno che si pensò fosse dei servizi segreti. Qualche altro non fu mai identificato. Molti di loro tornavano a casa per votare. Era l'ultima sera di campagna elettorale. Rimarrà negli archivi della memoria come la più grave tragedia nella storia dell'aviazione civile italiana.
A guidare l'aereo ci sono piloti di lunga e provata esperienza di volo. Roberto Bartoli e Bruno Dini. Con loro il motorista Gioacchino Di Fiore, anch'egli con il brevetto di 3° grado che lo aveva abilitato al pilotaggio di grossi aerei.
L'aeromobile, con a bordo 108 passeggeri e 7 membri dell'equipaggio, alle ore 21,46 decolla dalla pista di Fiumicino. Intorno alle ore 22,25 è sulla verticale dell'aeroporto palermitano a 5.000 piedi ed il bollettino meteorologico di Palermo Punta Raisi segna «calma di vento, visibilità 5 Km.».
La signora Eleonora Fais, che da trentaquattro anni, senza mai desistere, insegue la verità su quel disastro aereo, ricostruisce minuziosamente il tragico avvenimento e con esso la storia di un'inchiesta rimasta in superficie. In quell'aereo, insieme a tanta gente, perse la vita la giovane sorella Angela, segretaria di redazione de "L'Ora" che viaggiava col redattore politico de "L'Ora" Alberto Scandone.
Su Montagnalonga, dopo 3 processi e un'istanza di riesame, respinta nell'ottobre 2001 dal giudice di Catania Peroni Ronchet, se non si vuole prendere per buona la "verità" emersa nelle Aule di Giustizia, risultata a dir poco improbabile, non ci sono ancora verità e responsabilità.
L'8 maggio 1972, in una nota di agenzia della Reuter affiorò l'ipotesi della bomba, ma le indagini e le istruttorie che si susseguirono la scartarono del tutto.
Nonostante, all'indomani del grave evento, circolasse diffusamente in ambito giornalistico la notizia che si trattava di un atto stragísta e non di incidente di manovra – circostanza immediatamente riferita ai Fais da una loro antica amica di famiglia, anche lei giornalista collaboratrice de "L'Ora" -, calò un improvviso silenzio, seguito da affrettate e incalzanti smentite.
Le famiglie Fais e Salatiello e la moglie e i familiari di Bartoli, costituitisi parti civili, nell'immediatezza dei disastro, contro i responsabili aeroportúali dell'epoca, i funzionari dell'Alitalia, dei Ministeri della Difesa e dei Trasporti, costrinsero la magistratura catanese a chiamare in giudizio quest'ultimi, i quali furono in seguito tutti assolti.
L'ipotesi di una bomba a. bordo, subito scartata, fu invece raccolta dal rappresentante dei piloti Anpac nella prima commissione di indagine.
Il 27 giugno 1972, a 15 giomi dalla firma dei decreto di incarico dell'allora ministro Oscar Luigi Scalfaro, il colonnello Francesco Lino «che non aveva alcuna esperienza di volo» – puntualizza la Fais -, aveva già concluso per l'errore umano, nonostante il comandante Ferretti, membro della commissione d'inchiesta ministeriale, a nome dei piloti Anpac, avanzasse il sospetto di una esplosione nella carlinga.
La commissione, in base alle norme che regolano i rapporti tra Alitalia e Ministero dei Trasporti, avrebbe dovuto prevedere una composizione di 13 membri, di cui 3 appartenenti all'Anpac Ma il colonnello Lino la limitò a 11, escludendo, quindi, due piloti.
Sui piloti si rovesciarono accuse di inesperienza e tasso alcolico elevato. Sul Bartoli si riversarono accuse di distrazione, in particolare «evidenziatasi nel corso della giornata, a causa di annebbiamento cerebrale dovuto a droga o alcool». Versíone infamante, poi smontata dalla perizia dei prof. Ideale Dei Carpio. dirigente dell'Istituto di Medicina Legale di Palermo.